Prendo spunto da un articolo uscito su La Stampa dal titolo “La fine delle Storie” e dal post della sua autrice, Loredana Lipperini, che lo commenta dicendo che i libri, anche i finalisti Strega se pur di ottima qualità, sono molto molto realisti, segno che ci si fida meno dell’immaginazione; e ciò fa problema.
Trovo questo punto di vista molto azzeccato talmente tanto che chiarisce anche altri ambiti. È una riflessione, infatti, che potrebbe riguardare anche il cinema.
Sto vedendo “corti” in concorso a un festival e mi paiono troppo didascalici, senza immaginazione, appunto. Alcuni poi sembrano proprio solo l’incipit del fim, quello dove si pone la situazione, quello da cui ti aspetti che prenda avvio la storia. Invece niente, puff, si chiude, fine. E allora? ti chiedi nella sala buia. E dunque? Cosa potrebbe succedere? Sembrano quesi quelle tracce di temi che alcuni insegnanti illuminati danno oggi ai ragazzi: un incipit da proseguire. Con l’immaginazione, appunto. (Tranne che per “Gli Incredibili” di Daniele Stocchi con Luca Di Capua, molto interessante)
Quel che ho detto per i “corti” vale spesso anche per i film “lunghi” a concorso, che brillano per molte cose ma non sempre per fantasia.
Ora, tutto ciò potrebbe non essere senza relazione con la pulsione descrittiva che esiste oggi anche nella scienza psicologica dove, essendo il concetto di causalità ormai un tabù, si descrivono i casi immaginando sempre meno un’ipotesi teorica.
Un altro segno del fatto che siamo in un’epoca senza coraggio?
Ho capito perché faccio fatica a leggere romanzi. Salvo rare eccezioni e i grandi classici, generalmente li abbandono dopo poco. Si producono – producono, sì – storie facili, con strongoloni che inducono il nodo alla gola, specialmente quelli in cui i bambini soffrono, meglio le bambine per onorare il trend di genere. Ma allora non potevamo tenerci le più utili fiabe che mettevano l’accento sulle risorse più che sulle lacrime?
Lo schema preconfezionato della narrazione sembra ricalcare lo schema della fiaba che ne diventa il modello segreto.. Direte che ho scoperto l’acqua calda, ed è così, il fatto è che l’estate di solito leggo qualche romanzo in più, dato che normalmente sono soprattutto una divoratrice di saggi. Non sono dunque certo una esperta del romanzo visto che ne leggo pochi, ma non occorre essere un critico letterario per riconoscere quelli buoni da quelli buonisti. Ci sono quelli costruiti con una specie di catechismo interno che prescrive cosa dire e cosa non dire al lettore e come dirlo. Mi infastidisce quel modo di narrare “di scuola”. Ma le scuole di scrittura (a meno che non sia una come la Oates a tenerla, come di fatto fa) dovrebbero essere bandite per lo stesso importante motivo per cui non dovrebbero esistere le scuole di psicoanalisi: perché entrambe, letteratura e psicoanalisi, sono nate riconoscendo ed onorando l’imprevedibile unicità di un soggetto.
Per questo mi piacciono una Oates, una Jackson, una Vinci, per esempio, perché onorano l’umanità dell’uomo. La letteratura non può essere rassicurante e il lieto fine non può essere la regola (anche se piace alla mamma dello scrittore, come ho sentito candidamente confessare in pubblico da uno di loro).