Quei trent’anni di internamento furono completamente ingiustificati. Vediamo perché.
Il suo fu un delirio sistematizzato di persecuzione, secondo i criteri dell’epoca, un delirio, cioè, che non si era infiltrato in tutto il suo sistema ideativo, non contagiava tutto il pensiero. Camille credeva che il suo ex maestro di scultura, e amante appassionato, il celebrato Rodin, fosse in realtà un mostro che aveva tentato di avvelenarla e che, per di più, faceva a pezzi altre donne (una metafora – lei stessa era a pezzi- immaginata da Camille come reale). Il peccato di Rodin fu che non aveva voluto lasciare la sua compagna precedente, da cui aveva un figlio, per unirsi stabilmente a Camille. Certamente Rodin è stato un mostro di pavidità – come, d’altra parte, lo fu anche l’amato fratello di Camille (la storia si ripete) – , ma certo non fu un mostro omicida. Anzi, pare proprio che Rodin mantenne sempre per Camille un affetto, anzi un amore, per quanto poco coraggioso, e cercò di far pervenire, in forma anonima, del denaro a Camille in ospedale, soprattutto quando la famiglia Claudel privó Camille della sua legittima eredità.
Camille era effettivamente perseguitata, ma dalla famiglia -come abbiamo visto nei post precedenti -, più che da Rodin.
Il delirio di Camille, dunque, era un delirio organizzato intorno a un tema -Rodin- e, come tale, comprendeva solamente una parte della coscienza ma non comportava la confusività totale dell’azione o del pensiero. Quindi Camille, dopo un primo necessario periodo di internamento, avrebbe potuto continuare ad avere una vita all’esterno dell’ospedale, una vita quasi normale, non pericolosa per terzi, così come l’aveva avuta, per anni, nel suo appartamento parigino al piano terra del quai Bourbon, 19. Il suo delirio era contenuto, non minaccioso, toccava solo una parte delle sue interpretazioni ideative. La finezza delle sue lettere, quelle che si sono salvate, lo testimonia.