Il film Caramel, debutto di regia per la libanese Nadine Labaki, mette in scena un’amicizia intima, sororale, tra donne di diverse età e condizioni. E’ ambientato in uno dei luoghi principe in cui ha luogo la comunicazione inconscia e la seduzione tra donne: un salone di bellezza a Beirut. Luogo profumato in cui le donne parlano, litigano, si sorridono, si confessano nel silenzio dei gesti e degli sguardi, comprendono l’altra, persino quando è la rivale: “voglio sapere tutto di lei, come si muove, come sorride, che profumo ha” e di nascosto le amiche invitano l’ignara avversaria a una promozione, sorprendendo la rivale cui tocca farle il “trattamento”. Un termine che allude anche al percorso intimo che questo incontro metterà in moto, un incontro silenzioso in cui le due si studiano, un trattamento giocato sul caramello caldo che serve a depilare e che aiuterà l’abbandonata a uscire dalla dipendenza da un uomo prepotente e narciso. Nel gruppo di donne ci sono due sorelle: un’anziana sarta che accetta un appuntamento con un suo distinto cliente e sua sorella, una donna lievemente alienata, ben conosciuta e integrata nel quartiere. La cucitrice si fa tingere i capelli e pettinare ma, al momento di uscire, la sorella instabile protesta, lagnosa e suadente, e lei rinuncia a quella che sembra essere l’ultima chance di vita per restare a curare la sorella con cui vive e con cui dorme in uno stesso grande letto antico che ha tutta l’aria di essere stato quello dei genitori, segno che le anziane sorelle non sono mai uscite dallo statuto di figlie e quindi sono precipitate nell’abisso esogamico della coppia incestuale. Nel salone di Beirut si toccano temi universali e contemporaneamente – plasticità del femminile – le donne si consigliano e sostengono l’un l’altra nell’arte della seduzione. Riparate da un fine socialmente ammesso  – l’ essere belle per l’uomo – ma non per questo elimina quel piacere segreto, conosciuto anche prima dell’adolescenza, di prepararsi insieme per una festa, chiuse nel bagno, a raccontarsi cose di sé che nessuna sa e a rimirarsi negli occhi dell’altra.
Mi ricordo che anni fa un collega più grande, il professor Sergio Caruso, con cui noi giovani leve della psicoanalisi ci stavamo recando a cena dopo un convegno, disse: “le donne si vestono e truccano per le altre donne, anche perché gli uomini, in genere, osservano poco, invece nulla sfugge all’occhio dell’altra”. Una frase che mi torna in mente periodicamente e che ho sempre confusamente sentito come carica di senso ma misteriosa, e oggi che sto scrivendo di questi temi, mi appare in tutta la sua luce. Al riparo della rivalità, dietro al paravento del “chi è la più bella”, l’occhio dell’una ammira e valorizza il sembiante dell’altra. Lo sguardo femminile è capace di cogliere il dettaglio, mentre a volte quello maschile può appagarsi anche solo dell’orpello.