Nonostante fossi stata avvertita della noia mortale del film “Le otto montagne”, il tema padre-figlio mi sembrava troppo cruciale per essere lasciato da parte per una semplice possibilità di tedio. In effetti, su questo tema, il film non delude, almeno alla mia lettura. Il figlio biologico si separa dal padre e dalla madre, come è giusto che sia e con tutte le difficoltà esistenziali di lavori improbabili e sottopagati. Al suo posto i genitori “adottano” idealmente il ragazzo montanaro, amico del figlio, che invece fa loro molta compagnia. Il padre fa con lui quello che ha sempre sognato di fare col figlio biologico, cioè camminare in montagna. Gite a cui il figlio naturale si era sottratto con forza dicendogli: “papà, queste sono cose che si fanno con gli amici, non con i genitori. Tu non hai amici e vuoi farle con me!” La fine del ragazzo di montagna, che non rivelo per non spoilerare troppo, ci racconta con precisione gli effetti di un eccessivo ingombro da parte dei genitori, bio o sociali che siano, padri o madri che siano.
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Corriere della sera: “Dice il comandante del reparto operativo dei Carabinieri di Catania, Piercarmine Sica: una delle ragioni che hanno portato Martina Patti a compiere il gesto, può essere proprio la gelosia, non solo della nuova compagna dell’ex convivente ma anche del possibile affezionarsi della figlia nei confronti della donna».
Ci sono sempre più bambini che hanno sia una mamma, sia una matrigna. Solo che quest’ultima non è più la cattiva che fa risaltare la bontà della mamma, ma spesso è altrettanto buona e la mamma può temere che lo possa persino essere più di lei. Così come una donna non è mai sicura della propria femminilità, così una madre non è mai sicura di essere una buona madre, non è mai certa della qualità del proprio materno. Ma tollerare la propria finitudine è un esercizio molto difficile. Dunque la gelosia per la rivale non è solo relativa all’ex, ma riguarda l’affetto della bimba ( o del bimbo) per la matrigna. Un amore inedito, che non ha ancora un nome, ma che esiste ed è forte. Un amore non ancora “autorizzato”. E solo quando il discorso collettivo – non solo quello privato- arriverà a riconoscerlo, potremo forse avere meno tragedie come quella della piccola Elena Del Pozzo.
Come spesso accade gli artisti vedono prima e il film del geniale e giovane regista Xavier Dolan, Mommy, racconta proprio di ciò che accade in una situazione di Plusmaterno, nel fallimento della separazione. Una madre, di fronte alle rimostranze del centro di accoglienza per la condotta del figlio sedicenne che in mensa ha appiccato il fuoco e leso gravemente un compagno, decide di prendersi cura personalmente del figlio. Una decisione forte, ma anche impulsiva e un po’ onnipotente. In tutta la storia, mai una parola spesa tra madre e figlio sul compagno leso per sempre dalle ustioni, mai un pensiero sull’assunzione di responsabilità. Il ragazzo diciassettenne, tornato a vivere con la madre, prende iniziative seduttive nei suoi confronti, mosse a cui la madre non si sottrae. Sorride ai toccamenti furtivi del figlio, anche sul seno. Molti i baci sulla bocca tra i due, abitudine che troviamo consumata frequentemente anche tra le madri che incontriamo nel nostro quotidiano. La madre psichicamente incestuosa non dà la vita, ma dà la morte: Diane, la madre, infatti, si fa chiamare Die, (to die=morire). E quando alla fine, stremata, la donna si separa da lui per abbandonarlo in un ospedale psichiatrico si occuperanno del figlio non una figura di cura, ma tre figure maschili che lo sederanno e gli applicheranno scariche elettriche: non padri che educano nei tempi morti, ma padri aggressivi, padri-natura, padri-Cosa che non si distinguono, dal punto di vista della funzione, dall’abisso materno ma ne rappresentano la versione violenta. Il figlio cerca di scappare lanciandosi contro la vetrata del centro in cui è rinchiuso. La mancata separazione li ha resi folli, madre e figlio.
Ricordiamo che l’onere della separazione spetta alla madre. Se la prima simbiosi madre-figlio da una struttura è solo perché ad essa segue la separazione che unicamente la madre può fare. E ha il dovere di fare.

Qualcuno ha voluto liquidare le problematiche sollevate dal film bollando la madre di narcisismo.
Alla psicoanalisi è toccato il destino di smontare i misticismi e gli idealismi: non sarebbe meglio salvare le vite umane anche sacrificando i grandi principi? Anche perché gli eroi a volte portano più crisantemi che diademi. E questa sembra una di quelle volte.
La guerra finirà quando finirà il bisogno degli uomini di avere dei narcisi. Ovunque si trovino in alto, in basso, a destra, a sinistra, al di qua o al di là di un confine.
Mi domando come si faccia a governare gli uomini senza conoscerli. I potenti che stanno decidendo le sorti dell’umanità, hanno qualche idea di come sia fatto l’uomo, di come funzioni psicologicamente? Credo di no.
Sarà anche per questo che i negoziati si stanno arenando o addirittura non partono. Non è possibile negoziare senza capire l’altro, senza poter ipotizzare con un certo grado di approssimazione ciò che gli passa per la testa e ciò a cui potrebbe essere sensibile, che non è mai solo un pezzetto di terra.
Dice Paul Valéry: “Le meditazioni sulla morte -alla Pascal- sono proprie di uomini che non devono lottare per la vita, guadagnarsi il pane, crescere i bambini. L’eternità preoccupa quelli che hanno tempo da perdere. E’ una forma del tempo libero.”
Caro Valéry, hai ragione. Ed è proprio per pensare – sì anche alla morte – che dovremmo avere tutti più tempo libero. Avere il tempo di pensare all’eternità o alla caducità dovrebbe essere un obiettivo della democrazia. L’occuparsi di una filosofia della morte – o di diverse filosofie della morte – produrrebbe meno bare inutili: quelle della guerra
Credo sia da considerare anche quella che potremmo chiamare una certa psicologia dei popoli. Qui esco un po’ dal mio ambito che riguarda i singoli soggetti, però mi pare giusto proporre una considerazione, forse più letteraria e culturale che strategica. C’è un tratto dell’animo russo, raccontato in Dostoevskij, Turgenev, Tolstoj ed altri che è incline all’estremo e alla distruttività, piuttosto che alla mediazione e che, come dice Virginia Woolf, é “tumultuoso, incapace di sottomettersi al controllo della logica o alla disciplina della poesia”. Credo che, oltre che per motivi tattici, convocare la Cina come terzo al tavolo, sarebbe un bene (il terzo è spesso benefico, in ogni situazione ) anche perché i cinesi sono confucianamente pragmatici, non inclini a bizzarre ventate di testa. Come sostengo da tempo, i saperi della psicoanalisi possono giovare anche alle decisioni politiche. Inoltre, forse solo i cinesi potrebbero essere in grado di offrire una via d’uscita “onorevole”, o per lo meno non totalmente discreditante, a un dittatore pronto a scompensarsi, evitando così un suo passaggio all’atto che coinvolgerebbe il mondo.
meno patologici. Un continuum, che si svolge su una stessa linea, unisce un tale gesto estremo – seguire la madre dopo averne respirato la morte per giorni – con la reazione meno psicotica di altri figli (più spesso figlie) che, benché pienamente adulte, mostrano una insopportabilità fuori dal comune nei confronti di quell’evento dolorosissimo ma naturale che inevitabilmente arriva nella vita di ciascuno: la morte della madre. Quando tale sofferenza diventa sconfinata, senza bordo, essa trascina il figlio/la figlia in un abisso malinconico in cui resta rinchiuso/a per troppo tempo.
Chi non arriva a considerare tale tristissima circostanza come un accadimento naturale, in cui si soffre moltissimo ma non se ne muore, ripete forse una fallita esperienza dello svezzamento dalla madre primitiva che è l’unica che veramente tiene in vita. Ecco che allora la scelta, forse inconscia e quindi più vera, della maniglia della cucina a cui si è impiccata questa triste figlia, assume ancora più senso e allude forse a un cibo che non ha mai potuto diventare simbolico e civilizzato ma è rimasto neonatale o addirittura uterino, come uterina era la loro casa. E’ la morte della madre che nutre da sempre, e per sempre, quella che più facilmente trascina con sé anche la figlia o il figlio.
(Il dipinto è di Edward Munch, La madre morta e la sua bambina(1899) e descrive l’età – l’infanzia- in cui ci si aspetta una disperazione che sembra senza un domani. Eppure la bambina diverrà una donna.)