di Sabina Pignataro
Corriere della Sera 27ora
Quando stai per diventare genitore ti dicono spesso: “Vedrai, i bambini ti riempiranno la vita e le giornate”. Nessuno, invece, ti dice mai che l’arrivo di un figlio, specialmente del primo, potrebbe farti sentire terribilmente solo. Della solitudine dei genitori si fa fatica a parlare pubblicamente. Come se questo sentimento sbiadisse l’amore per un figlio. E invece ci si può sentire soli, eccome. Capita quando la stanchezza, le difficoltà o l’umore nero, prevalgono sulla volontà di uscire. Capita quando non si sa dove andare e con chi parlare perché gli amici e i famigliari sono al lavoro. Capita anche quando si è in mezzo ad altre persone e in famiglia. La solitudine non fa sconti. A potersi sentire soli sono tutti i genitori, non solo quelli che vivono una situazione di marginalità e di disagio sociale, culturale o economico
Londra prova a rompere un tabù
Non è facile ammetterlo pubblicamente. Gli inglesi hanno provato a rompere questo tabù denunciando come l’arrivo di un figlio non sia tutto amore e gioia, ma, anzi, un certo grado di malessere e di solitudine è incluso nel pacchetto. Il 52% dei neogenitori ha infatti dichiarato di aver sofferto di solitudine e il 70% ha detto di essersi sentito escluso e tagliato fuori da amici e familiari dopo la nascita del figlio. Numeri che non sono passati inosservati al governo inglese che ha deciso di includere la categoria dei “neogenitori” nella rete delle persone vulnerali alle quali si dedicherà il nuovo Ministero della Solitudine, il primo in Europa. La premier Theresa May ha usato proprio il termine new parents nel suo discorso, per sottolineare l’esigenza di promuovere interventi che non si rivolgano solo alle madri (come impropriamente la stampa italiana ha tradotto) ma anche ai padri.
E in Italia come va?
Nel nostro Paese esistono molte realtà che si dedicano al supporto dei bisogni dei neogenitori, ma le risposte sono spesso lacunose, frammentarie, limitate e nascoste. Prima di tutto perché ogni Amministrazione (locale e Regionale) ha attivato una serie di iniziative con l’obiettivo di sostenere la delicata fase post partum, ma manca, in generale, una strategia integrata che metta in contatto i servizi sanitari con quelli sociali. Così come manca un raccordo tra chi si occupa di gravidanza e chi si occupa del post. Inoltre, spesso i progetti e le iniziative nascono a livello territoriale grazie al finanziamento di un bando e terminano con esso: oggi ci sono e magari tra un anno no. E nel frattempo non sono nemmeno facilmente individuali. Specialmente quelli offerti dal sistema sanitario. A farne le spese sono soprattutto quei genitori che, una volta a casa, hanno difficoltà, pratiche, fisiche od emotive. A chi possono rivolgersi? Al ginecologo? Allo psicologo? Al pediatra? All’ospedale? Al medico di base? La verità è che il percorso non è per nulla chiaro e gli specialisti spesso lavorano a compartimenti stagni: chi si occupa della salute della mamma non parla con chi si occupa della salute del neonato; chi si occupa di infanzia non dialoga con chi si occupa di genitorialità. Ad esempio, sono poco conosciuti i consultori famigliari, i quali vengono ancora considerati come presidio di riferimento solo per le persone svantaggiate. E’ un peccato, dato che spesso svolgono un ottimo (e gratuito) servizio di prevenzione, ascolto ed accompagnamento durante la gravidanza e anche nei primi mesi. (Del resto sono pochissimi quelli che hanno un sito internet!). Comunque, anche laddove le famiglie riuscissero ad individuare i servizi presenti (profit e no profit), questi sono ancora piuttosto “mamma-centrici”, sia dal punto di vista dell’organizzazione (non c’è quasi nulla nei week end), sia dal punto di vista della formulazione della proposta. Dicono tutti “per te mamma… per la mamma e il suo bambino”. Facciamo un esempio: a Torino poche settimana fa è stato attivato uno sportello telefonico a cui i genitori possono rivolgersi gratuitamente per esporre dubbi riguardante la salute e il benessere dei loro figli. Bello! Peccato che si chiami “Mamma ti ascolto”. Eppure, anche i papà possono telefonare, no? Un altro esempio (più grave): sul sito del Ministero della Salute la pagina dedicata alla depressione post partum parla solo delle mamme. E se fosse un papà a soffrirne? In questo caso non c’è nessuna indicazione.
Gli aspetti positivi
Negli ultimi anni le onlus hanno cercato di colmare i vuoti lasciati dal settore pubblico. Ad esempio, su scala nazionale, Save the Children ha avviato in 8 ospedali italiani il progetto “Fiocchi in Ospedale”, che prevede interventi di sostegno a mamme e papà attraverso una collaborazione con l’ospedale e il territorio. (Il servizio è attivo al Niguarda e Sacco di Milano; al Maria Vittoria di Torino; al San Giovanni, San Camillo e Madre Giuseppina Vannini di Roma, al Cardarelli di Napoli e al Policlinico di Bari).
L’impresa sociale Con i Bambini ha appena finanziato 80 progetti del Bando Prima Infanzia (per un importo pari a 62,2 milioni di euro). Tra questi c’è il progetto “passi piccoli, comunità che cresce” della cooperativa Koinè che prevede una serie di azioni in 8 comuni di Milano, tra cui l’apertura di uno spazio di socializzazione 7 giorni su 7 (riservato ai papà il sabato), un ludobus itinerante che porterà giochi, letture e animazioni nella piazze e nei parchi, l’assistenza gratuita a domicilio di un’ostetrica. I progetti sono numerosissimi e quelli più recenti puntano alla nascita di legami solidali e forme di mutuo aiuto tra genitori. A Roma, ad esempio, l’Associazione Il Melograno ha avviato una campagna di “reclutamento” di mamme risorsa che mettano a disposizione di un’altra mamma – vicina di casa o di quartiere – un po’ della loro esperienza e loro tempo libero.
Genitori come porcospini di Schopenhauer
In un momento di vulnerabilità e insicurezza come quello che segue la nascita di un bambino, però, non è semplice per un genitore attivarsi per incontrare altre persone. Talvolta i genitori avvertono il bisogno di socializzare ma poi se ne pentono, proprio come i porcospini di cui scriveva il filosofo Arthur Schopenhauer. Per uscire dalla solitudine cercano gli altri, sperando di trovare giovamento e beneficiare del loro calore ma, quando sono troppo vicini, sentono le spine reciproche e si richiudono nella solitudine. In questo caso, le spine sono gli incontri con quei genitori che negano ogni sorta di difficoltà (quelli che rispondono sempre “va tutto benissimo”) o con quelli super ansiosi o con quelle mamme e papà narcisisti che passano il tempo a lodare le proprie prestazioni e quelle del figlio. Esistono poi le famiglie che il gruppo non lo tollerano per nulla. Sono le “famiglie claustrofiliche”, come le definisce Laura Pigozzi nel suo saggio Mio figlio mi adora pubblicato da nottetempo: quelle in cui prevale l’amore per il chiuso e in cui i membri pensano di trovare tutto ciò di hanno bisogno, sostegno compreso.
Servizi a domicilio
Anche se il fenomeno è ancora marginale, sempre più spesso le famiglie italiane (non solo quelle facoltose), richiedono l’intervento di operatori privati a domicilio, come le ostetriche, le puericultrici, le consulenti dell’allattamento, o le doule. Una scelta che risponde a quel bisogno di compensare l’assenza di una rete famigliare e sociale in grado di supportare i genitori nella crescita dei figli. A questo proposito sta per uscire un film, Tully (nelle sale italiane dal 3 maggio) in cui Charlize Theron è una mamma a pezzi, stravolta dai suoi tre figli (di cui uno neonato) alla quale andrà in aiuto una “tata della notte”. Le immagini del trailer () lasciano intravedere un tipo di maternità lontana da quella rosea, performante e senza sbavature alla quale i media e la pubblicità ci hanno abituato. Non vedo l’ora di vederlo.
Abbiamo un gran bisogno di film come questo (o come “Quando la notte” di Cristina Comencini) che rompano il binomio (artificiale ed artificioso) “maternità = felicità ”. Abbiamo bisogno che in pubblico si dica che la maternità non è priva di ombre, insicurezze e solitudine e che la nascita di un figlio non porta sempre, necessariamente (e per tutti) solo momenti di beatitudine. Abbiamo bisogno di leggere altri articoli, come quello in cui lo scorso ottobre il settimanale Time chiese agli americani: “Oggi la maternità si suppone sia tutta amore e gioia. E allora perché tante mamme si sentono così male?” Speriamo ci sia presto un film, un libro, una copertina di un giornale che con lo stesso coraggio metta in luce anche le problematiche, le debolezze e la solitudine dei papà di cui purtroppo ci occupiamo poco. Chissà, magari saranno proprio gli inglesi a farlo, dato che hanno già avviato una riflessione nazionale che coinvolge entrambi i sessi.