Ha lasciato un diario, di quegli ultimi allucinati giorni, la figlia di 48 anni – figlia ancora, non passata allo statuto di donna – che si è tolta la vita dopo la morte della madre di 71, avvenuta pare per una brutta caduta (l’autopsia è in corso). La figlia, dopo 10 giorni di convivenza col cadavere della madre – segno che nemmeno la morte ha potuto separarle – si è impiccata alla maniglia della porta della cucina. Il suicidio per autoasfissia mette in primo piano la gola e parla spesso di una mancanza d’aria e di parola soggettiva. Vivevano sole e ritirate, uscivano solo per i cagnolini, povere bestiole che hanno trovato la morte insieme alle padrone. Erano quasi mummificate, così come fu la loro vita, se così si può chiamare.
Epilogo tragico di una relazione inseparata e claustrofilica che sarebbe necessario non venisse più definita dai giornali come “riservata”. Vita riservata o “persona riservata”, definizione che non raramente si riserva agli assassini, sono un’altra cosa.
Questo evento impossibile è solo quantitativamente – e non strutturalmente – differente dall’intolleranza alla separazione, diffusa nelle relazioni famigliari contemporanee, che dà origine a moltissimi altri fenomeni più o
meno patologici. Un continuum, che si svolge su una stessa linea, unisce un tale gesto estremo – seguire la madre dopo averne respirato la morte per giorni – con la reazione meno psicotica di altri figli (più spesso figlie) che, benché pienamente adulte, mostrano una insopportabilità fuori dal comune nei confronti di quell’evento dolorosissimo ma naturale che inevitabilmente arriva nella vita di ciascuno: la morte della madre. Quando tale sofferenza diventa sconfinata, senza bordo, essa trascina il figlio/la figlia in un abisso malinconico in cui resta rinchiuso/a per troppo tempo.

Chi non arriva a considerare tale tristissima circostanza come un accadimento naturale, in cui si soffre moltissimo ma non se ne muore, ripete forse una fallita esperienza dello svezzamento dalla madre primitiva che è l’unica che veramente tiene in vita. Ecco che allora la scelta, forse inconscia e quindi più vera, della maniglia della cucina a cui si è impiccata questa triste figlia, assume ancora più senso e allude forse a un cibo che non ha mai potuto diventare simbolico e civilizzato ma è rimasto neonatale o addirittura uterino, come uterina era la loro casa. E’ la morte della madre che nutre da sempre, e per sempre, quella che più facilmente trascina con sé anche la figlia o il figlio.

(Il dipinto è di Edward Munch, La madre morta e la sua bambina(1899) e descrive l’età – l’infanzia- in cui ci si aspetta una disperazione che sembra senza un domani. Eppure la bambina diverrà una donna.)